(mio contributo alla rivista Roots Routes, gennaio 2019)
La convenzione teatrale vuole che vi sia una netta linea di separazione tra il palcoscenico e il pubblico. La “quarta parete”.
Un limite che segna la differenza tra chi guarda, gli spettatori, e chi viene guardato, gli attori.
Un confine netto, che indica la fine dell’immaginato e l’inizio del reale: da una parte la rappresentazione, dall’altra la vita.
Eppure, questa “quarta parete” non si vede.
Non c’è.
Non si innalza alcun muro tra palco e platea ma, piuttosto, vi è un varco, aperto allo sguardo di chi guarda. Tutto ciò che sul palcoscenico avviene, avviene nel medesimo tempo di chi agisce e di chi assiste alla visione. Avviene al presente.
L’aristotelica unità di tempo e spazio è quindi del tutto vera per quello che riguarda l’accadere dell’azione teatrale: si è tutti nel medesimo luogo e nel medesimo tempo, nell’ora e qui.
Questa peculiarità è il limite e la forza del linguaggio teatrale. Obbliga a un continuo interrogarsi su quello che si intende per rappresentazione, per narrazione, per visione.
Obbliga a riflettere su una ritualità che, pur ripetendosi in modo sempre uguale, accade sempre in modo diverso, perché gli attori, e soprattutto gli spettatori, non sono mai gli stessi.
Eppure, nonostante un dato di fatto di per sé banale – attori e spettatori sono esseri umani che condividono lo spazio e il tempo dello spettacolo – non è affatto banale far sì che la rappresentazione teatrale rimanga in contatto con il reale.
In un momento storico in cui la realtà è, almeno per una parte di mondo, iper-accessibile e velocissima (a portata di un click o, meglio, di un dito) che senso ha la sua rappresentazione?
Perché accontentarci di una recita, di ri-chiamare la realtà, quando possiamo accedervi così facilmente, e così comodamente, dal nostro divano?
Il 16 settembre del 2001 a una conferenza stampa ad Amburgo il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen, a un giornalista che gli chiedeva cosa aveva provato davanti agli attacchi dell’11 settembre, rispose: «Quello che è accaduto, naturalmente, vi prego di sintonizzare i vostri cervelli, è la più grande opera d’arte mai esistita». Questa affermazione, all’indomani di un evento che ha inequivocabilmente modificato e determinato la storia contemporanea e i suoi equilibri internazionali, fu oggetto di gravissime critiche e condanne. Perché mostrare tanta disumanità considerando un attacco terroristico, e migliaia di vittime, al pari di un’opera d’arte?
Stockhausen fu costretto a cancellare numerosi concerti e persino una delle figlie, mi pare di ricordare, rilasciò una dichiarazione pubblica prendendo le distanze dalla dichiarazione del padre. Alla fine, il compositore ritrattò quello che aveva detto. «Nel rispetto delle vittime», si disse. Il fatto è che la sua affermazione non aveva alcun carattere morale né un giudizio di valore, ma solo uno sguardo lucido su quello che era accaduto: la realtà prendeva il posto della finzione, dell’arte, regalandoci, con un’immagine di inarrivabile potenza, l’epifanica visione della nostra vulnerabilità. E tutto ciò era molto più impattante di qualsiasi opera d’arte mai esistita.
Improvvisamente, la realtà e la sua rappresentazione erano diventate la medesima cosa, nello stesso momento, in tutto il mondo: Edipo non era più nelle pagine di un libro, né oltre la quarta parete del teatro o dentro alla cornice di un quadro, era tra noi, uno di noi, con la sua peste e la sua colpa.
Come relazionarsi, allora, dopo l’undici settembre, al tema della rappresentazione?
Nel mio lavoro di autrice mi interrogo quotidianamente su ciò che è la realtà e sulla sua rappresentazione. Realtà è la cronaca che ci arriva dai molti media esistenti? Realtà è la quotidianità in cui siamo immersi? Realtà è ciò che conosciamo? Ciò di cui abbiamo, o abbiamo avuto, esperienza?
E, soprattutto, come possiamo rappresentare la realtà, qualsivoglia realtà, oggi?
Non ho risposte, se non una: l’arte non può più permettersi di prescindere dalla realtà.
E non può permetterselo perché la rappresentazione, soprattutto quella teatrale, ha la meravigliosa possibilità di essere realtà nel momento in cui diventa testimonianza, fedele o trasfigurata, del nostro presente, nel momento in cui rende il presente narrabile, nel momento in cui fa, di questo presente, una visione agita sul palcoscenico.
Nel momento in cui ci obbliga a interrogarci su quale sia il nostro coinvolgimento e la nostra responsabilità in questo presente.
Nel momento in cui infrange, del tutto, la “quarta parete” e ci fa alzare dalle nostre poltroncine in platea, rendendoci non solo spettatori ma, soprattutto, attori di questo presente.
La convenzione teatrale vuole che vi sia una netta linea di separazione tra il palcoscenico e il pubblico. La “quarta parete”.
Un limite che segna la differenza tra chi guarda, gli spettatori, e chi viene guardato, gli attori.
Un confine netto, che indica la fine dell’immaginato e l’inizio del reale: da una parte la rappresentazione, dall’altra la vita.
Eppure, questa “quarta parete” non si vede.
Non c’è.
Non si innalza alcun muro tra palco e platea ma, piuttosto, vi è un varco, aperto allo sguardo di chi guarda. Tutto ciò che sul palcoscenico avviene, avviene nel medesimo tempo di chi agisce e di chi assiste alla visione. Avviene al presente.
L’aristotelica unità di tempo e spazio è quindi del tutto vera per quello che riguarda l’accadere dell’azione teatrale: si è tutti nel medesimo luogo e nel medesimo tempo, nell’ora e qui.
Questa peculiarità è il limite e la forza del linguaggio teatrale. Obbliga a un continuo interrogarsi su quello che si intende per rappresentazione, per narrazione, per visione.
Obbliga a riflettere su una ritualità che, pur ripetendosi in modo sempre uguale, accade sempre in modo diverso, perché gli attori, e soprattutto gli spettatori, non sono mai gli stessi.
Eppure, nonostante un dato di fatto di per sé banale – attori e spettatori sono esseri umani che condividono lo spazio e il tempo dello spettacolo – non è affatto banale far sì che la rappresentazione teatrale rimanga in contatto con il reale.
In un momento storico in cui la realtà è, almeno per una parte di mondo, iper-accessibile e velocissima (a portata di un click o, meglio, di un dito) che senso ha la sua rappresentazione?
Perché accontentarci di una recita, di ri-chiamare la realtà, quando possiamo accedervi così facilmente, e così comodamente, dal nostro divano?
Il 16 settembre del 2001 a una conferenza stampa ad Amburgo il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen, a un giornalista che gli chiedeva cosa aveva provato davanti agli attacchi dell’11 settembre, rispose: «Quello che è accaduto, naturalmente, vi prego di sintonizzare i vostri cervelli, è la più grande opera d’arte mai esistita». Questa affermazione, all’indomani di un evento che ha inequivocabilmente modificato e determinato la storia contemporanea e i suoi equilibri internazionali, fu oggetto di gravissime critiche e condanne. Perché mostrare tanta disumanità considerando un attacco terroristico, e migliaia di vittime, al pari di un’opera d’arte?
Stockhausen fu costretto a cancellare numerosi concerti e persino una delle figlie, mi pare di ricordare, rilasciò una dichiarazione pubblica prendendo le distanze dalla dichiarazione del padre. Alla fine, il compositore ritrattò quello che aveva detto. «Nel rispetto delle vittime», si disse. Il fatto è che la sua affermazione non aveva alcun carattere morale né un giudizio di valore, ma solo uno sguardo lucido su quello che era accaduto: la realtà prendeva il posto della finzione, dell’arte, regalandoci, con un’immagine di inarrivabile potenza, l’epifanica visione della nostra vulnerabilità. E tutto ciò era molto più impattante di qualsiasi opera d’arte mai esistita.
Improvvisamente, la realtà e la sua rappresentazione erano diventate la medesima cosa, nello stesso momento, in tutto il mondo: Edipo non era più nelle pagine di un libro, né oltre la quarta parete del teatro o dentro alla cornice di un quadro, era tra noi, uno di noi, con la sua peste e la sua colpa.
Come relazionarsi, allora, dopo l’undici settembre, al tema della rappresentazione?
Nel mio lavoro di autrice mi interrogo quotidianamente su ciò che è la realtà e sulla sua rappresentazione. Realtà è la cronaca che ci arriva dai molti media esistenti? Realtà è la quotidianità in cui siamo immersi? Realtà è ciò che conosciamo? Ciò di cui abbiamo, o abbiamo avuto, esperienza?
E, soprattutto, come possiamo rappresentare la realtà, qualsivoglia realtà, oggi?
Non ho risposte, se non una: l’arte non può più permettersi di prescindere dalla realtà.
E non può permetterselo perché la rappresentazione, soprattutto quella teatrale, ha la meravigliosa possibilità di essere realtà nel momento in cui diventa testimonianza, fedele o trasfigurata, del nostro presente, nel momento in cui rende il presente narrabile, nel momento in cui fa, di questo presente, una visione agita sul palcoscenico.
Nel momento in cui ci obbliga a interrogarci su quale sia il nostro coinvolgimento e la nostra responsabilità in questo presente.
Nel momento in cui infrange, del tutto, la “quarta parete” e ci fa alzare dalle nostre poltroncine in platea, rendendoci non solo spettatori ma, soprattutto, attori di questo presente.