E poi, alla soglia del trentesimo anno, ho iniziato a soffrire di una strana inquietudine. E di molto mal di stomaco. E di parole che mi affollavano la testa e premevano all'altezza del diaframma.
Così, improvvisamente, mi sono raggiunta.
Giovane lo ero (giovane lo sono?) eppure quella cavolo di età sulla carta di identità era improvvisamente e realmente la mia.
Adulta, quasi adulta. Adulta.
E l'altro giorno ho incontrato una persona che non vedevo da anni.
Sei cambiata, mi ha detto, eri proprio una bambina quando ci siamo conosciuti.
Quando ci siamo conosciuti avevo ventiquattro anni.
A ventiquattro anni mia madre aveva me, era sposata, era una insegnate di ruolo, vale a dire che aveva un contratto a tempo indeterminato.
Ma io, a ventiquattro anni, ero una bambina.
Sono stata una bambina quasi fino a ieri, fino a oggi.
Poi ho iniziato a mettere i tacchi.
Davvero. Credo che sia stata quella la differenza.
Ho iniziato a mettere i tacchi (saltuariamente) e mi sono allenata a perdere la pazienza.
E a parlare.
Un allenamento difficile e molto stancante.
Un allenamento alla differenza.
Io sono me, mi sono detta. La mia età è la mia, la mia testa è la mia, la mia cavolo di pancia è la mia, le mie mani, quello che scrivo, il mio lavoro. Me. Sono solo me.
Epperò essere sé non è così scontato. Per essere sé si fa sempre una certa fatica .
Comunque.
La morale è che sto facendo esercizi giornalieri. Chi mi vuole mi segua. Chi mi ama mi ami. Chi c'è c'è.
E' molto liberatorio. Mi fa sentire più alta, più intelligente, più bionda.
E mi terrorizza.
Mi terrorizza.
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