Leggetemi nella pagina TU SEI LIBERA
Et voila! :)
Sarò ad Avignone (precisamente qui) fino alla fine di maggio, per scrivere un nuovo testo - o, come dicono qui, une nouvelle piece..-
Leggetemi nella pagina TU SEI LIBERA Et voila! :)
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Ecco. Io al fatto che ci si possa parlare solo tra simili credo poco. Al fatto che se non si guarda il mondo dallo stesso lato sia impossibile collaborare, ci credo ancora meno. E comunque che insopportabile noia sarebbe parlare solo con chi pensa quello che pensi tu.
"Che bello quell'albero" "Molto bello" "Che brutta la pioggia" "Molto brutta" Una noia mortale. A me invece è venuta una enorme curiosità per il dissimile, il contrasto, il contrapposto, il diverso. Perché è lì che si gioca l'intelligenza. Trova l'uguaglianza nella differenza. E' il gioco della settimana enigmistica al contrario. Ma questo è solo l'inizio. Perché è solo dopo, che il gioco si fa duro. Quando, trovati i punti di incontro, si decide che cosa farne. E' solo lì che, come dice il saggio Belushi, i duri cominciano a giocare. N.B. Pubblico anche qui una lettera aperta che, come Teatro i, abbiamo scritto a seguito della chiusura anticipata della nostra stagione. Iniziamo a giocare. Eddaie. Teatro i / lettera aperta ai colleghi (e non solo, aggiungo io) C'è una questione che non riesco a risolvere. La questione del tempo che passa (o non passa). Il tempo reale che conta sempre meno del tempo percepito. Il tempo che ancora non è memoria e rimane bruciante, ben oltre quel presente che ne ha causato la ferita. Il tempo del ricordo che si ripropone ogni mattina. Il tempo di quel tizio o di quella tizia che non c'è più, ma prima c'era, e ha cambiato le lancette al tuo orologio interiore per sempre. E tu non puoi farci niente. Il tempo che non inizia. E quindi fatica a finire. Il tempo che non cambia. Anche se poi all'improvviso ti ritrovi più grasso o più magro o più triste o più scemo o con più rughe o più libero. E allora sì, qualcosa in effetti deve essere successo. Ecco. Io e questo tempo conduciamo una lotta senza tregua. Lui mi fa piangere e io gli rendo la vita difficile. Lui è convinto di avermi e invece io credo che mi debba delle scuse. O, per lo meno, delle attenzioni particolari. Ma adesso basta. Adesso non ce la faccio più. Mi sono stancata di aspettarlo, comprenderlo, perdonarlo. E gliel'ho detto. Chiaro e tondo. Basta, non ti voglio più. Lui mi ha riso in faccia. Ma poi si è messo accanto a me e m'ha baciato gentile. Forse forse, mi vuole persino bene. altri post Nel 2015 ho fatto almeno tre rivoluzioni.
La prima, quella più faticosa, ha provocato qualche ferito. Una piccola cicatrice sulla mano destra e un solco più profondo nella terra dove cammino. La seconda è profumata. La annuso continuamente. Odora di aria. Con un retrogusto di mare. E una nota predominante di casa. La terza ha leso la mia onestà e la mia pazienza. Questa triplice rivoluzione è durata un decennio, ma è venuta alla luce in pochi giorni e poi è passata. Passata, come tutti gli anni che sono passati. Eppure cose vecchie da bruciare non ne ho trovate. Non riesco a distinguere cosa sia finito e cosa sia iniziato. E nemmeno quando sia finito e quando sia iniziato. Non voglio quantificare la distanza percorsa, se poi c'è, e comunque non trovo il metro adatto a misurare i ricordi. La mia memoria non ha quantità, ha solo qualità. Così, senza aver bruciato niente, me ne sto con un piede nel passato e uno nel futuro e ho scritto su un foglio i propositi del 2016. Il primo punto è: Imparare ad andare. L'ultimo punto è: Imparare a stare. In mezzo c'è un'altra rivoluzione. Buon anno. Buona vita. altri post Il me spione allunga l’occhio alle agende altrui.
Il me spione aguzza l’udito allo squillare del telefono, ovviamente non il suo. Il me spione si interessa di cose che non lo riguardano. Il me spione mi accompagna da molti anni. La prima volta che ha dato traccia di sé stava frugando in un armadio. Scartabellava in faldoni segreti contenenti carteggi segreti con parole segrete che lui leggeva segretamente. Il me spione ha sempre un’opinione su quello che succede. Un’idea precisa del come del quando e del chi. E conosce anche il perché. Lui procede per soluzioni, non per alternative. Ha sempre una sola, univoca, immodificabile versione dei fatti. Il me spione conosce il mio stato d’animo. Sa come mi sento, sa come devo sentirmi (di solito maluccio, dopo che mi ha raccontato le sue scoperte, ma lui mi ama di più quando sono triste, dice che la tristezza mi rende bella). Il me spione è un po’ invadente. Parecchio invadente. Mi sta addosso fino a togliermi il respiro. Mi convince a ad aprire i cassetti chiusi e ad annusare i vestiti altrui a spiare le foto, le bacheche, i diari, i gps, gli msn, gli sms, le app, i whapp, le call, le phone, i time e le doppie spunte. Il me spione è sicuramente internazionale ed esperto di informatica. Intuire, scoprire, omettere. Sono i principi base dello spione doc. La prima regola è quella di non dire mai quello che mi rivela. Devo stare zitta. Il me spione si beve le mie parole. Tutte. Mi lascia muta. Eppure in questi giorni mi ha lasciato campo libero. Non so esattamente cosa gli sia successo, ma comunque non c’è. Allora ho deciso di ricambiarlo con la stessa moneta e ho spiato nei suoi diari. Sono vuoti. Tutti vuoti. Nemmeno un segreto. Nemmeno un segreto piccolino. Nulla. Così li ho rubati. E adesso ci scrivo io, quello che mi pare. (Per dirla tutta, ho anche buttato via la chiave dell'armadio. Così non mi vengono tentazioni. Né a me, né a lui. ) Ovvero, come imparare a scomparire.
Da bambini si gioca. "Io non ci sono. Mamma tu non mi vedi". I genitori stanno al gioco, quando sono genitori spiritosi. In alcuni casi purtroppo esagerano, creando piccoli traumi ai loro figlioletti che finiscono per sentirsi invisibili persino da adulti. Comunque. Si può sparire in vari modi. Smettendo di rispondere al telefono o dandosi alla macchia, per esempio (anche se io annovero questi comportamenti più tra le fughe...), lavorando sulla propria magrezza fisica (atteggiamento un po' patologico), oppure, semplicemente, assumendo una posizione neutrale. Un po' come fanno gli animali che hanno paura e, accecati dai fari di un'auto, se ne stanno fermi, immobili. Se non mi muovo, se non fiato, se non respiro, forse non mi vedranno, forse non esisto. Sicuramente non mi succederà nulla di male. Una meravigliosa fantasia. Perché se l'automobilista non è molto sensibile, estremamente pronto di riflessi e completamente sobrio, l'impatto è pressoché inevitabile. Esistere e riuscire a non esistere è cosa non comune. Per questo forse ho sempre anelato alla sparizione. Sparire non è umano, è divino. E a nessuno piace sentirsi normale, per non dire mortale. Ultimamente sto cambiando idea. Non appena intravedo i fari dell'auto che sta per investirmi mi interrogo su quale sia la reazione migliore da avere. Forse potrei sbracciarmi, mi dico, o urlare o scrivere velocemente "sono qui!!!" su un cartello, o buttarmi a lato della strada, o lanciarmi contro alla macchina in corsa sperando di avere dalla mia la forza dell'attacco. Ma mentre rifletto la macchina si avvicina. Pericolosamente. Ecco. Sui tempi di reazione devo ancora lavorare. Ho sognato una donna brutta, anziana ma non troppo, con la pelle rovinata e quell'espressione amara delle labbra, quell'espressione che hanno le persone tristi, sole e forse cattive. C'ero, ma non c'ero. E poi non c'ero, ma c'ero. Perché mi cercavo.
Ora ci sono? Non tutti i pezzi uniti. Ma quasi tutti i pezzi. Separati, ma vagamente dialoganti. Vagamente. A intermittenza. Ogni tanto un blackout. Ma la luce poi torna o no? Forse. Forse. E' che non sempre le connessioni funzionano. Non sempre. Non funzionano quelle tra quello che voglio e quello che faccio. Ma poi mi sforzo un po' ed ecco, forse, i collegamenti ci sono. Non funzionano le connessioni tra il corpo e la testa. Ma poi ho amici che mi coccolano e tagliano i capelli e mi fanno la frangia. E la testa si riposiziona sopra il collo. Cosa ci sia sotto è un po' confuso, ma ci sto lavorando. Ci sto lavorando. Sotto, al buio, ci sono io. E l'io è la cosa più difficile da definire. Si sono inventati la psicoanalisi, la filosofia, la logica, la medicina e pure la fotografia per farlo. Sotto ci sono io. E che cosa io sia è molto incerto. E beata me, che sono incerta. E abbasso chi è sicuro. Abbasso chi sa cosa fare. Abbasso chi conosce il bianco e il nero e il grigio non lo sceglie mai. Abbasso chi sa quando dire sì e quando dire no. E non sbaglia. Abbasso chi non sbaglia mai, appunto. Abbasso chi ha ragione. Abbasso l'io monolitico che sa sempre dove mettere le mani, pure al buio. Io non lo so. Non lo so mai dove le metto. Ma ogni tanto lo scopro. Mi morde una tarantola, una pantera, una serpe ingrata, oppure mi becca un uccellino o mi bacia una farfalla. E' nel rischio che sta la possibilità. Nelle mani in pasta. E non è detto che l'impasto sia granché Ma tant'è. Io provo. Nel caso trovassi una torta, o della nutella, o litri di oro liquido, lo dirò a tutti. E mi leccherò le dita. Blackout o meno non c'è differenza. Io mi leccherò le dita. altri post Sono stata bambina ubbidiente, ma un po' triste. Adolescente arrabbiata, ma solo con se stessa. Pre-adulta silenziosa, ma bonaria (non bonacciona), mediatrice, paziente, gentile.
E poi, alla soglia del trentesimo anno, ho iniziato a soffrire di una strana inquietudine. E di molto mal di stomaco. E di parole che mi affollavano la testa e premevano all'altezza del diaframma. Così, improvvisamente, mi sono raggiunta. Giovane lo ero (giovane lo sono?) eppure quella cavolo di età sulla carta di identità era improvvisamente e realmente la mia. Adulta, quasi adulta. Adulta. E l'altro giorno ho incontrato una persona che non vedevo da anni. Sei cambiata, mi ha detto, eri proprio una bambina quando ci siamo conosciuti. Quando ci siamo conosciuti avevo ventiquattro anni. A ventiquattro anni mia madre aveva me, era sposata, era una insegnate di ruolo, vale a dire che aveva un contratto a tempo indeterminato. Ma io, a ventiquattro anni, ero una bambina. Sono stata una bambina quasi fino a ieri, fino a oggi. Poi ho iniziato a mettere i tacchi. Davvero. Credo che sia stata quella la differenza. Ho iniziato a mettere i tacchi (saltuariamente) e mi sono allenata a perdere la pazienza. E a parlare. Un allenamento difficile e molto stancante. Un allenamento alla differenza. Io sono me, mi sono detta. La mia età è la mia, la mia testa è la mia, la mia cavolo di pancia è la mia, le mie mani, quello che scrivo, il mio lavoro. Me. Sono solo me. Epperò essere sé non è così scontato. Per essere sé si fa sempre una certa fatica . Comunque. La morale è che sto facendo esercizi giornalieri. Chi mi vuole mi segua. Chi mi ama mi ami. Chi c'è c'è. E' molto liberatorio. Mi fa sentire più alta, più intelligente, più bionda. E mi terrorizza. Mi terrorizza. altri post Perché limite deriva da limes. E limes, per i Latini, significava confine. E il confine è una linea di prossimità. Non divide, ma separa, c'è una bella differenza. Due zone (tempi, luoghi, corpi o materie) se ne stanno una accanto all'altra, si sfiorano, ma non si toccano, non possono compenetrarsi.
Il confine è sacro (questo lo dicevano sempre i Latini), è una soglia che si può solo attraversare, ma su cui è impossibile soffermarsi. La pelle è un confine. Ma io ho un confine che non è solo la pelle. Io sono io. Tu sei tu. Facile. Io mi chiamo Francesca. Tu ti chiami? Tu sei altro da me. Non necessariamente l'altro da me, ma comunque altro. E se è vero che è l'altro a definire il nostro limite (con il suo corpo, la sua testa, la sua puzza, la sua voce) vero è, al contempo, che continuamente cerchiamo di spingere un po' più in là la linea di separazione. Posso andare oltre la pelle, molto oltre la mia pelle Io posso di più. Io penso di più. Io sono di più. E allora forse non ho limite. Posso lavorare mille e mille ore al giorno, posso alzare l'asticella del salto un millimetro alla volta, all'infinito, posso dimenticarmi di mangiare, bere, dormire, parlare. Posso correre più veloce di Bolt. Posso perdonare l'imperdonabile, prendere sempre la decisione giusta, accettare la rabbia, la paura, l'insulto, l'abbandono e la sciatteria. Posso convincerti di tutto. Posso cambiarti, salvarti, trasformarti. Posso riparare quello che è rotto. Posso. Comunque posso. Vedrai che ce la faccio. Non c'è problema. Vedrai. Il bello è agire al di là dei propri limiti (non si dice così?), andare oltre, indagare la zona del disequilibrio, non accontentarsi. Già. Già. Se non fosse che ad alzare troppo l'asticella potrei farmi male. Se non fosse che a forza di perdonarti smetterò di sopportarti. Se non fosse che sono magra e se non mangio divento ancora più magra. Se non fosse che fumo troppo, davvero troppo, e a quello sì dovrei dare un limite. Che poi, a non darlo, maledetto limite, pure la pelle non si vedrà più. E l'altro da me, ad invadermi, ci metterà una frazione di secondo. altri post |