La mia faccia è la mia faccia. Continuo a ripetermi questa frase
La mia faccia è la mia faccia
E però il suo nome viene fuori dal mio viso. E tutte le volte allo specchio lo vedo che mi guarda
Per tutta la vita avrò la faccia di mio padre
Per tutta la vita avrò la faccia di mio padre
perché è anche la mia
La mia faccia è la mia faccia
E però il suo nome viene fuori dal mio viso. E tutte le volte allo specchio lo vedo che mi guarda
Per tutta la vita avrò la faccia di mio padre
Per tutta la vita avrò la faccia di mio padre
perché è anche la mia
N.N. è una formula usata in passato per indicare i cosiddetti "figli di nessuno".
NOMEN NESCIO significa nome sconosciuto.
Figlio di N.N., figlio di padre senza nome. Senza padre e senza storia.
N.N. come nessun nome, come niente, come nulla.
NOMEN NESCIO significa nome sconosciuto.
Figlio di N.N., figlio di padre senza nome. Senza padre e senza storia.
N.N. come nessun nome, come niente, come nulla.
GLI AVVENIMENTI successivi al 1968, fino a gran parte degli anni '70, hanno sancito una frattura sia da un punto di vista storico che antropologico: grandi movimenti di massa socialmente disomogenei (operai, studenti e gruppi etnici minoritari, movimento delle donne) e formati per aggregazione spesso spontanea, attraversarono quasi tutti i paesi del mondo con la loro carica contestativa e sembrarono far vacillare governi e sistemi politici e sociali in nome di una trasformazione radicale.
La generazione che partecipò attivamente al movimento di quegli anni ha in qualche modo voluto “uccidere” i propri genitori rifiutandone la legge.
Il testo vuole indagare cosa questa generazione abbia lasciato ai propri figli: non li ha in qualche modo a sua volta divorati, lasciandoli privi di un orizzonte definito di regole in cui vivere e pianificare il proprio futuro?
Un’analisi del presente condotta attraverso gli occhi di una generazione, nata negli anni ottanta, addirittura negli anni novanta, che non ha visto, né tanto meno ha vissuto, il fervore della storia recente, eppure ne porta le invisibili ferite.
Figli che faticano ad uccidere metaforicamente i propri genitori e , incapaci di elaborare il lutto, non riescono a diventare adulti e a riappacificarsi con la storia.
In scena due sole figure.
L’azione è il loro colloquio, un colloquio apparente, un flusso di parole che attraversa entrambi ma che potrebbe appartenere ad uno solo.
Uno più uno è davvero uguale a uno.
I due si incontrano in un frammento di tragedia: unità di tempo, di luogo e di azione.
Si incontrano nello spazio tempo di un lutto non ancora elaborato: nell’attesa di un funerale, nella pausa prima della tumulazione, nell’intervallo in cui si veglia una bara, aperta su un volto che è già altro dalla persona amata.
È l’attimo subito successivo al dramma, in cui il tempo interrompe il suo fluire lineare o circolare e forma una bolla di non respiro e senza lacrime.
Il testo procede: l’abisso, la morte, il ricordo, i fatti, l’idea, il congedo.
L’azione è la ricerca di un nome che possa cancellare una sigla, N.N., e riempire uno spazio delineando confini.
E in tutto questo la Storia c’è, anche se sembra perduta. Non risuona più universale, come nelle parole dei padri, ma è eco indistinta alla quale sono stati tolti potenza e nitore. Frasi roboanti e volutamente vuote che nominano la guerra eppure non sanno rappresentarla, nomi che richiamano volti, strade e piazze. Un passato che diventa presente e col presente si confonde. Padre e figlio emergono in questo universo frammentato e monologante, un universo che disegna un tempo che non si riesce ad afferrare né a definire.
E’ sempre il colloquio con mio fratello, colloquio che non c’è,
è il colloquio con mia madre, che non c’è.
È il colloquio con mio padre, che non c’è.
È il colloquio con il passato, colloquio che non c’è,
e passato che non c’è più, e che non ci sarà mai.
È occuparsi di un materiale che è infinitamente incompiuto.
Il colloquio con una materia che non risponde.
È l’afonia assoluta che rovina tutto.
È il tentativo di toccare con mano gli oggetti.
È il tentativo di superare un tempo
che non è mai stato presente.
Thomas Bernhard
La generazione che partecipò attivamente al movimento di quegli anni ha in qualche modo voluto “uccidere” i propri genitori rifiutandone la legge.
Il testo vuole indagare cosa questa generazione abbia lasciato ai propri figli: non li ha in qualche modo a sua volta divorati, lasciandoli privi di un orizzonte definito di regole in cui vivere e pianificare il proprio futuro?
Un’analisi del presente condotta attraverso gli occhi di una generazione, nata negli anni ottanta, addirittura negli anni novanta, che non ha visto, né tanto meno ha vissuto, il fervore della storia recente, eppure ne porta le invisibili ferite.
Figli che faticano ad uccidere metaforicamente i propri genitori e , incapaci di elaborare il lutto, non riescono a diventare adulti e a riappacificarsi con la storia.
In scena due sole figure.
L’azione è il loro colloquio, un colloquio apparente, un flusso di parole che attraversa entrambi ma che potrebbe appartenere ad uno solo.
Uno più uno è davvero uguale a uno.
I due si incontrano in un frammento di tragedia: unità di tempo, di luogo e di azione.
Si incontrano nello spazio tempo di un lutto non ancora elaborato: nell’attesa di un funerale, nella pausa prima della tumulazione, nell’intervallo in cui si veglia una bara, aperta su un volto che è già altro dalla persona amata.
È l’attimo subito successivo al dramma, in cui il tempo interrompe il suo fluire lineare o circolare e forma una bolla di non respiro e senza lacrime.
Il testo procede: l’abisso, la morte, il ricordo, i fatti, l’idea, il congedo.
L’azione è la ricerca di un nome che possa cancellare una sigla, N.N., e riempire uno spazio delineando confini.
E in tutto questo la Storia c’è, anche se sembra perduta. Non risuona più universale, come nelle parole dei padri, ma è eco indistinta alla quale sono stati tolti potenza e nitore. Frasi roboanti e volutamente vuote che nominano la guerra eppure non sanno rappresentarla, nomi che richiamano volti, strade e piazze. Un passato che diventa presente e col presente si confonde. Padre e figlio emergono in questo universo frammentato e monologante, un universo che disegna un tempo che non si riesce ad afferrare né a definire.
E’ sempre il colloquio con mio fratello, colloquio che non c’è,
è il colloquio con mia madre, che non c’è.
È il colloquio con mio padre, che non c’è.
È il colloquio con il passato, colloquio che non c’è,
e passato che non c’è più, e che non ci sarà mai.
È occuparsi di un materiale che è infinitamente incompiuto.
Il colloquio con una materia che non risponde.
È l’afonia assoluta che rovina tutto.
È il tentativo di toccare con mano gli oggetti.
È il tentativo di superare un tempo
che non è mai stato presente.
Thomas Bernhard
Il testo è stato tradotto e presentato all'interno della rassegna Face à Face, Paroles d’Italie pour les scènes de France, a Le Theatre Scène National di Saint Nazaire, all'interno del Festival Ring a La manufacture di Nancy e al TNP di Lione.
Teatro i, 2015
regia Renzo Martinelli
con Giovanni Battaglia e Matteo De Mojana
Produzione Teatro i
Teatro i, 2015
regia Renzo Martinelli
con Giovanni Battaglia e Matteo De Mojana
Produzione Teatro i